La scintilla e il paese abbandonato

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agosto 18, 2020 di meditazionimetafisiche

Nell’estate senza feste patronali, il ricordo della ricorrenza della Madonna della Natività nel vecchio borgo di Nardodipace

di Antonio Cavallaro

Articolo pubblicato sul «Quotidiano del Sud» del 15 agosto 2020

«Vi è piaciuta la festa?»
Dritto vicino la porta della chiesa, Pompeo, premuroso come un padrone di casa che congeda gli ospiti rimasti, salutava i pellegrini che, dopo essersi segnati, mandavano con le mani un bacio verso la statua.
Dopo qualche ora il paese si sarebbe svuotato di nuovo e, partito l’ultimo sparuto gruppo di emigrati di ritorno, sarebbe tornato ai suoi consueti sei abitanti.

Tra questi c’è Enzo che fa il pendolare dalla Svizzera. La sua famiglia è emigrata quando era ancora poco più che un bambino ma il suo cuore è rimasto lì nella Valle dell’Allaro, e così ha restaurato una vecchia casa di famiglia e ogni volta che può torna laggiù a struggersi di malinconia.

Pompeo è uno di quelli che è rimasto insieme a sua moglie. Da giovane faceva lo stagionale in Svizzera per poi poter tornare a vivere il resto dell’anno nel paese che l’ha visto bambino. Ora fa l’operaio forestale e spende le sue giornate a tenere vive le tradizioni religiose del paese, processioni, feste…

L’attesa del passaggio della processione sul «Corso Umberto I» (Foto di Salvatore Federico)

Quella di settembre è ancora, nonostante tutto, la festa più importante. Si celebra la Madonna della Natività ma per tutti è la Madonna dell’8 settembre, ché lei, la Madonna, è gelosa della sua data e non vuole che sia cambiata per nulla al mondo. Quando qualche improvvido procuratore pensò di posticiparla di un paio di giorni per poter risparmiare qualche lira e far arrivare una banda musicale di grido che in quei giorni si trovava già in Calabria, la Madonna ne rimase talmente sdegnata che il mese successivo non si curò della pioggia che prese a cadere copiosa, senza fine. Piovve per giorni e giorni tanto che il colle su cui sorgeva il paese – una sorta di nave di roccia incuneata nella valle con la prua rivolta verso il mare – si aprì in due e una fiancata rovinò giù nel pendio portando con sé molte case e il futuro del paese.

Dopo qualche tempo il paese venne completamente ricostruito su un pianoro più a monte, a più di mille metri d’altezza. Gli aranci dolci, gli ulivi, i fichi e i fichidindia e i gelsi lasciarono il posto ai lecci e ai pini.

Il paese nuovo venne progettato da un famoso architetto, Saul Greco, che aveva disegnato persino la stazione Termini di Roma e, nella chiesa, splendeva l’azzurro delle maioliche di Pietro Cascella. Ma tanta contemporanea bellezza non suscitò mai l’entusiasmo della gente che custodiva nel cuore la vecchia chiesetta di pietra e creta del paese perduto.

Fu persino acquistata una statua fatta scolpire in Val Gardena che rimpiazzasse in qualche modo quella della Madonna della Natività. Era una statua di Maria Bambina, più filologicamente aderente al titolo con il quale era venerata, ma per tutti la Madonna rimaneva lei, quella giovane con le mani volte a destra, in un enigmatico atteggiamento che sembrava alludere a qualcosa di misterioso che non c’era già più.

Fu così che il nome “Nardodipace” sugli atlanti e le cartine geografiche venne a indicare la new town sul pianoro di Ciano, mentre il vecchio paese fu ufficialmente denominato “Vecchio Abitato”, ma per tutti rimase quello la vera “Nardudipaci”, anzi “lu pajisi”. 

* * *

Saranno stati i rigori dell’inverno, sarà stata la nostalgia, sarà stata la necessità di continuare a fare quello che si era sempre fatto – coltivare i terreni e allevare bestiame – chi lo sa? ma molta gente prese a ritornare nelle vecchie case, anche se oramai il paese – lu pajisi – era stato ferito a morte. La comunità era stata definitivamente divisa e l’emigrazione riprese a portare lontano i rimasti.

Su un vecchio registro della Confraternita del Sacro Cuore – sodalizio che era sopravvissuto al dramma dell’alluvione ma che si era definitivamente sciolto qualche anno dopo – i nomi di molti confratelli appaiono cancellati con un segno di matita blu e, di fianco, in rosso, la scritta “morto” oppure “America”.

Strano destino quello di Nardodipace, nato da un terremoto, quello del 1783, e morto con un’alluvione.

La salita verso “Il Timponello” (Foto di Salvatore Federico)

L’8 settembre rimase la festa della Madonna. Che la celebrassero là a Ciano, la loro “Madonnina” (come venne subito definita la nuova statua) magari a fine luglio, quando ci sono anche gli emigranti di ritorno e quando il tempo difficilmente fa scherzi, l’8 settembre sarebbe rimasto per sempre la festa principale.

* * *

Oggi l’8 settembre è la festa del rimorso, delle lacrime di nostalgia, dei ricordi che si affollano nella mente e di tanti, troppi “se”: se quell’alluvione del ’51… se quella del ’72… se fossimo rimasti, se fossimo tornati tutti, se si fosse ricostruito laggiù anziché lassù… 

L’8 settembre il vecchio borgo riprende a vivere come per incanto di un’esistenza effimera, quasi un fuoco fatuo. Come Bendicò, l’alano del principe di Salina che buttato dalla finestra tra le cose che non servono più si rianima quasi per magia per poi finire in un mucchio di polvere.  Le case chiuse per il resto dell’anno riaprono le imposte e dalle finestre arriva l’odore del sugo che cuoce lentamente nella pignata sul focolare. Dalla sera del 7 al pomeriggio dell’8 le voci dei bambini risuonano ancora una volta nelle strade… ma finito il pranzo tutti hanno fretta di tornare a casa. La vita non aspetta e non concede che si indugi troppo vicino al letto del moribondo cui sei andato a fare visita.

Così, alla sera, finita la festa, cala di nuovo il silenzio e le vecchie case riprendono a sussurrare le loro storie antiche che nessuno vuole più ascoltare e che il fiume  brontolando porta verso il mare.

* * *

Da bambino, ci andavo con mia madre alla festa della Madonna. Partivamo presto, con l’autobus (il postale, lo chiamano ancora da quelle parti). Era la prima sveglia mattutina dell’estate che preludeva alla lunga serie che sarebbe cominciata con l’inizio della scuola.

Il tragitto tra la nuova e la vecchia Nardodipace è un salto di circa 600 metri che si compie in una manciata di chilometri che il postale, un vecchio Fiat azzurro, percorreva tra curve a gomito e dirupi, scendendo dalla montagna verso la spettacolare valle dall’Allaro. In fondo si intravvedeva uno spicchio di mare, colorato dell’oro dell’alba.

“Allu pajisi” si sentiva forte nell’aria l’odore di polvere di sparo bagnata. Uno spettacolo di fuochi d’artificio aveva illuminato la notte prima la vallata, rintronando per le montagne, persino dopo che i fuochi erano terminati.

Anni dopo, leggendo la poesia “La notte dell’Arcangelo” del poeta calabrese Felice Mastroianni, avrei trovato le parole giuste per raccontare quello che il ricordo di questo spettacolo di luci, rumori e odori suscita ancora nel mio animo. Anche Mastroianni ricorda  e rivive una notte di festa di fine estate:

«Ultima notte di settembre, / e gli occhi / dei cani sgomenti / agli echi fragorosi della valle / fiorita di bengala // È rimasto laggiù, per sempre / il segreto di tanta meraviglia / nell’odore di polveri bruciate / delle girandole umide di brina / all’alba della notte dell’arcangelo»

Il riposo dei “musicanti” (Foto di Salvatore Federico)

Nonostante fossero passate da poco le sette del mattino, la bottega di Maria, alla “strada”, era già aperta. Gli uomini avevano giocato a carte e bevuto fino a tardi, ma lei, la cugina Maria, piccola e sorridente si aggirava, come un folletto, tra la bottega e la cucina vicina dalla quale arrivava l’odore del sugo di carne di capra che sobbolliva lentamente sul fuoco.

Mamma mi comprava una confezione di “Bucaneve” dall’inconfondibile forma a tubo. Facevo grande attenzione a sfilarli uno per uno, intatti, infilando con cura il dito nel buco centrale. Non sopportavo che si rompessero.

Intento a questa delicata operazione seguivo mia madre che faceva la spola tra case di comari e parenti da salutare. 

Passandoci in mezzo, il paese ricordava e ricorda tuttora un treno; se visto dall’alto, una nave… sembra uno scherzo della sorte che nella forma sia stato inscritto il suo destino!

Le casette si susseguono una dopo l’altra affacciandosi sulla stretta via principale che riporta dipinto in azzurro su maioliche bianche il pomposo nome di “Corso Umberto I”. I balconi sembrano alzarsi solo di un paio di metri da terra e gli usci, chiusi solo per metà dalle mezze porte, si affacciano quasi l’uno di fronte l’altro in un continuo scambio tra dentro e fuori.

Che tristezza devono essere sembrate ai nardodipacesi le nuove e linde casette a schiera della new town, tutte uguali con i giardinetti separati da alti muri e la disposizione logica delle abitazioni in base alla loro funzione che aveva rimescolato secolari rapporti di vicinato e comparaggio!

Il “corso Umberto” termina con una scala di pietra che conduce in quello che una volta era il quartiere più povero e che è stato il primo ad essere abbandonato, “li Fruscì”. Un tempo la processione arrivava sin laggiù, con la statua abilmente portata a spalle lungo i gradoni  e la banda che annaspava cercando di risparmiare il fiato necessario per marce e litanie.

Don Biagio Cutullè, parroco di Nardodipace (Foto di Salvatore Federico)

Oggi il tragitto della processione è stato dimezzato e dai balconi non si affacciano più gli anziani che allungano la mano facendo segno ai portantini di avvicinare la Madonna per poterla toccare e baciare. Un gesto di attenzione tipico di molti luoghi di Calabria e che in certi paesi sarebbe diventato un segno di scandalo: l’inchino della statua! Ma qui l’inchino non era verso il potente o il mafioso di turno bensì verso i sofferenti che portano ogni giorno la loro croce.

Come quella anziana madre con il marito morto di tumore e il figlio che combatteva contro lo stesso male che, un giorno, con il viso solcato dalle lacrime, raggiunto claudicante il balcone, si tolse la catenina d’oro che portava al collo per cingerne quello della Vergine.

* * *

Quest’anno il virus ha soffocato col suo abbraccio venefico anche la festa dell’8 settembre, come tutte le feste patronali della Calabria. 

Quell’improvvisa fiamma che faceva scintillare per un attimo quel corpo di pietra accasciato sulla collina non si accenderà più. 

Forse Pompeo guarderà la valle dell’Allaro silenziosa e, chiudendo gli occhi, sognerà il cielo rosseggiante di bengala.

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