La vera storia del presepe

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dicembre 17, 2023 di meditazionimetafisiche

Questo articolo è apparso su «Mimì», l’inserto culturale del «Quotidiano del Sud / L’altra voce dell’Italia» del 17 dicembre 2023

di Antonio Cavallaro

Si può essere come Luca Cupiello, nella famosa commedia di De Filippo, che continua a pensare al presepe mentre il suo mondo va in frantumi, o somigliare all’altro personaggio, il figlio Tommasino, che per dispetto continua a dire “Nun me piace”. Il presepe rimane in ogni caso il simbolo più significativo e più autenticamente italiano del Natale.

Nacque difatti qui, nel cuore della Penisola, nel piccolo borgo di Greccio, in Umbria, il primo presepe, esattamente ottocento anni fa. A idearlo il santo più santo della storia: San Francesco d’Assisi.

Era il dicembre del 1223 e, come racconta la “Legenda” di Tommaso da Celano, «Circa due settimane prima della festa della Natività», Francesco chiamò Giovanni Velita, signore di quella cittadina e grande amico del Santo, e gli disse: «Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello». Il luogo prescelto fu una grotta al di sopra della quale venne, nei secoli successivi, costruito un imponente santuario. 

A giudicare da quello che riporta la “Legenda di San Francesco”, quella prima rappresentazione sacra riuscì alla perfezione: «La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia».

Nel racconto ci sono già in embrione tutti i caratteri di quello che sarà il presepe dei secoli avvenire: una grotta come luogo dell’evento, la presenza di un asino e di un bue e la folla festante tutt’attorno. Ne viene fuori una scena densa, affollata, certo più simile a certi presepi napoletani che non alle scarne descrizioni della natività contenute nei Vangeli dove tutto sembra svolgersi in maniera discreta, quasi intima.

Dei quattro vangeli canonici solo due raccontano la nascita di Gesù. Marco, che secondo gli studiosi è il vangelo più antico, non ne fa menzione alcuna, Giovanni invece inizia il suo vangelo con il celebre prologo nel quale si parla in termini gnostici dell’origine divina di Gesù e del suo essersi fatto carne ma anch’egli non pare prestare attenzione alle vicende che, secondo Matteo e Luca, si sarebbero svolte invece a Betlemme in occasione del censimento indetto da Cesare Augusto (sulla fondatezza di questo dettaglio, per la verità, c’è più di un dubbio).

Ma anche esaminando con cura i racconti di Matteo e Luca, si può notare come vi siano in essi vistose lacune rispetto a quanto ci ha tramandato la tradizione.

Intanto nessuno dei due fa menzione di una grotta, né di alcuna notte di incanto o di prodigi. Matteo annota solamente: «Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù» (Mt 1, 24-25). Luca non pare aggiungere molto di più: «Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2, 6-7), salvo poi raccontare dell’annuncio dell’Angelo ad “alcuni pastori”.

Se dunque i racconti ufficiali della Chiesa sono così parchi di notizie, da dove giunge quell’elaborato sistema fatto di storie e figure che ha attraversato la tradizione e che ogni Natale, da quel Natale del 1223, viene plasticamente rappresentato in case, chiese e piazze di tutto il mondo?

La risposta va cercata nei Vangeli apocrifi che, contrariamente a una certa pubblicistica che li vede come pericolosi e segretissimi libri ostracizzati e nascosti dalla Chiesa, ne hanno in realtà da sempre accompagnato il cammino, contribuendo non poco alla costruzione dell’immaginario collettivo cristiano. Questi testi, non accolti nel canone delle Scritture, perché ritenuti di dubbia derivazione apostolica, buttati fuori dalla porta sono poi rientrati dalla finestra, pervadendo di sé arte, liturgia e tradizioni.

Sbaglierebbe tuttavia chi, novello Dan Brown, pensasse che questi vangeli contengano una verità “più vera” di quella ufficiale. Come osserva Rossana Barcellona nel suo interessantissimo e documentato “Nascite, infanzie e altri miracoli. Letture apocrife tra Oriente e Occidente” (Rubbettino): «Come i Vangeli non intesero fare storia in senso stretto, ma piuttosto trasmettere attraverso il ricordo di fatti imbevuti e sostanziati di vita vissuta verità teologiche […] neanche i racconti della natività si presentano come cronache o resoconti. Essi tradussero in narrazione una natività dimenticata, poiché, a un certo momento, la nascita di Gesù – fatto storico a tutti gli effetti – ebbe bisogno di una “Storia”. Finirono così con il costruire una memoria pervasa da elementi mitizzanti e dati storici variamente miscelati. Tale memoria era destinata a rifluire nella storia per fissarsi in altre memorie e integrare le “radici” identitarie e culturali del cristianesimo inteso come inizio di una nuova civiltà».

Sono diversi i vangeli apocrifi dell’infanzia e per certi versi anche simili, poiché – come avviene spesso con i testi antichi – nati da sedimentazioni successive e da processi di significazione e meccanismi intertestuali. I due che più di ogni altro hanno però influenzato l’immagine e la storia del presepe sono senz’altro il “Protovangelo di Giacomo” e il cosiddetto “Pseudo-Matteo”.

In entrambi il luogo della nascita è una cavità della roccia. Quello dello specus, della grotta, è un simbolo assai potente. La grotta è l’apertura del ventre del mondo, è un segno di maternità che richiama l’antifona dell’Avvento (a sua volta ispirata a Isaia 45,8): “apriti o terra e germina il Salvatore”. Ma allo stesso tempo è anche un simbolo del mondo ctonio, un passaggio da questo mondo a quello degli inferi che si richiama direttamente alla morte stessa di Cristo il cui sepolcro, come registrano tutt’e tre i Sinottici, era stato “scavato nella roccia”. 

Nascita e morte sono intimamente collegati, specie nel Cristianesimo che professa l’esistenza di una vita ultraterrena. Il giorno della festa liturgica di un santo, infatti, coincide generalmente con il giorno della morte che viene così definito “Dies Natalis”. Questo legame stretto tra nascita e morte è bene simboleggiato dalla mirra offerta in dono dai Magi, che allude direttamente all’unzione che verrà fatta del corpo di Gesù deposto dalla croce per la sepoltura. Tale legame viene reso ancora più esplicito in alcune icone bizantine dette della “Madonna della Passione”, in cui il Bambino, si stringe impaurito al dito della Madre, mentre gli Angeli gli fanno vedere i segni del supplizio a cui andrà incontro. O, ancora, in alcune rappresentazioni occidentali, il Bambinello stringe tra le mani proprio una croce.

Un’annotazione la merita senza dubbio la presenza dei due animali: l’asino e il bue che, come osservavamo, non è menzionata nei vangeli canonici.

A parlare dei due animali è lo Pseudo-Matteo: «Tre giorni dopo la nascita del Signore nostro Gesù Cristo, la beatissima Maria uscì dalla grotta ed entrò in una stalla, depose il bambino in una mangiatoia, ove il bue e l’asino l’adorarono. Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta Isaia, con le parole: “Il bue riconobbe il suo padrone, e l’asino la mangiatoia del suo signore”. Gli stessi animali, il bue e l’asino, lo avevano in mezzo a loro e lo adoravano di continuo. Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta Abacuc, con le parole: “Ti farai conoscere in mezzo a due animali”».

In realtà Abacuc non parlava di due animali ma di due età. L’autore dell’Apocrifo è stato indotto in errore da una traduzione errata della cosiddetta “Bibbia dei Settanta” dall’originale ebraico. Nessun bue e nessun asinello, dunque. O per lo meno, se c’erano, non lo sappiamo.

Sempre gli Apocrifi introducono il topos della luce che proviene dalla grotta, della notte che viene illuminata da questa luce radiosa, e soprattutto del tempo che inspiegabilmente si ferma rendendo quella notte immobile, silenziosa, nonostante il trambusto che tutta quella folla doveva pur fare, una “Stille nacht”, come recita uno tra i più celebri canti natalizi.

«[…] l’aria stava come attonita – racconta lo stesso Giuseppe nel Protovangelo di Giacomo – guardai la volta del cielo e la vidi immobile e gli uccelli del cielo erano fermi. […] Ed ecco delle pecore erano condotte al pascolo e non camminavano, ma stavano ferme; e il pastore alzava la mano per percuoterle col bastone, e la sua mano restava per aria. Guardai alla corrente del fiume e vidi che i capretti tenevano il muso appoggiato e non bevevano».

In fondo sembra la descrizione di un nostro presepe, intrisa di quell’incanto che sin da bambini ci rapiva di fronte a quel mondo immobile in cui a muoversi era solo l’acqua del fiume e la luce del fuoco sotto la pentola scura di nerofumo.

Re o indivini? l’altro dono dei magi è il mistero

Sotto il rassicurante nome di “Re magi” si nascondono i personaggi più intriganti e misteriosi del presepe. L’unico dei Vangeli canonici a farne menzione è quello di Matteo che, nel secondo capitolo, racconta che «alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano:“Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo”». Il resto della storia è noto.
Il Vangelo è però assai parco di notizie: ci dice che giunsero dall’oriente e che portarono in dono al Bambino oro, incenso e mirra. Non ci dice però quanti fossero né che fossero re, né tanto meno quale fosse il loro nome.
Quello che i vangeli tacciono finisce per essere raccontato con dovizia di particolari dai vangeli apocrifi. Dei Magi, in particolare, si parla diffusamente nel cosiddetto “Vangelo armeno dell’infanzia”.
Qui, l’anonimo autore del V secolo scrive: «Questi re dei Magi erano tre fratelli: il primo era Melkon, re dei persiani, il secondo Gaspar, re degli indi, e il terzo Balthasar, re degli arabi», sempre secondo l’apocrifo, i Magi si misero «in marcia con un folto seguito».
Da qui alcuni dettagli della storia che la tradizione ci ha tramandato: il numero tre, il nome, il fatto che fossero re e che si muovessero insieme a un ricco corteo (come non pensare alla celebre “Adorazione dei Magi” di Gentile da Fabriano?).
Ai più non sarà sfuggito però che nella nostra tradizione, i Magi hanno la pelle di colore diverso, dettaglio che sembra contraddire la comune origine orientale di cui parlano sia Matteo che l’apocrifo armeno. La ragione sta nel fatto che con il tempo si era diffusa la credenza che i tre fossero in realtà i sovrani dei continenti all’epoca conosciuti (non erano ancora state scoperte l’America e l’Oceania): Africa, Estremo oriente ed Europa a significare l’omaggio di tutte le genti e l’inchino dei re del mondo al Signore dell’Universo.
La tradizione, di cui gli apocrifi sono frutto, sembra tuttavia voler mascherare una storia scomoda che si cela ancora dietro un’apparente innocenza lessicale. “Magi” è il plurale latino di “magus”. I nostri Magi allora, più che re, erano con ogni probabilità dei maghi, degli indovini, forse sacerdoti di Zoroastro che avevano però vaticinato, scrutando il cielo, l’inizio di un’era nuova.


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